Jessica, 26 anni, per mesi trattata per Long Covid, aveva un cancro terminale. Genitori accusano il sistema sanitario per diagnosi tardiva.
La storia di Jessica, una giovane donna di 26 anni dalla Gran Bretagna, è un drammatico monito sulle conseguenze di diagnosi errate. Il caso ha sollevato un acceso dibattito sull’efficacia del sistema sanitario durante la pandemia.
Le visite mediche e le diagnosi sbagliate hanno tragicamente mascherato la gravità del suo stato di salute. Invece di riconoscere i sintomi di un cancro maligno, i medici hanno attribuito il suo malessere prolungato alle conseguenze del Long Covid.
Per mesi, Jessica e la sua famiglia hanno cercato risposte. I suoi sintomi, tra cui dolori di stomaco, gocciolamento nasale, e una tosse violenta, sono stati ripetutamente sminuiti e trattati con cicli di antibiotici inefficaci.
La sera del 1 novembre 2020 segna un punto di svolta nella percezione della sua malattia: sua madre Andrea, guidata da un istinto materno, ha identificato sintomi di una possibile condizione più grave.
Dopo 20 appuntamenti con il medico di base e due visite al pronto soccorso, nessun sanitario ha pronunciato la parola “cancro”. La diagnosi corretta è arrivata solo dopo una consultazione privata, ma era ormai troppo tardi. Il cancro si era già esteso in modo incontrollabile. La famiglia di Jessica si è ritrovata a fare i conti con una realtà devastante: il cancro, che era allo stadio quattro e aveva invaso diversi organi vitali, era incurabile.
Dopo la morte di Jessica, i suoi genitori hanno intrapreso una campagna di sensibilizzazione sulla diagnosi precoce e la necessità di un’attenzione medica più scrupolosa.
Il caso non è mai stato analizzato compiutamente, con una serie di errori e negligenze che hanno impedito di cogliere segnali premonitori cruciali. I Brady stanno lottando per ottenere giustizia per Jessica e per evitare che altre famiglie soffrano simili tragedie, sottolineando l’importanza di un approccio olistico nella valutazione dei pazienti.
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